MILITE IGNOTO quindicidiciotto
di Mario Perrotta
tratto da Avanti Sempre
di Nicola Maranesi
e da La Grande Guerra, i diari raccontano
un progetto a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi
organizzazione Silvia Ferrari
Foto di scena Luigi Burroni
“Milite Ignoto” racconta il primo, vero momento di unità nazionale. È, infatti, nelle trincee di sangue e fango che gli “italiani” si sono conosciuti e ritrovati vicini per la prima volta: veneti e sardi, piemontesi e siciliani, pugliesi e lombardi accomunati dalla paura e dallo spaesamento per quell’evento più grande di loro. Spaesamento acuito dalla babele di dialetti che risuonavano in quelle trincee. Per questo ho immaginato tutti i dialetti italiani uniti e mescolati in una lingua d’invenzione, una lingua che si facesse carne viva. Ho provato a cucire insieme nella stessa frase quanti più dialetti potevo, cercando le parole che consentissero passaggi morbidi o fratture violente. Ne è venuta fuori una lingua nuova che ha regalato allo spettacolo un suono sconosciuto ma poggiato sulle viscere profonde del nostro paese.
Ho scelto questo titolo, Milite Ignoto, perché la prima guerra mondiale fu l’ultimo evento bellico dove il milite ebbe ancora un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi – anzi, già negli ultimi sviluppi dello stesso – il milite divenne, appunto, ignoto. E per ignoto ho voluto intendere “dimenticato”: dimenticato in quanto essere umano che ha, appunto, un nome e un cognome. E una faccia, e una voce. Nella prima guerra mondiale, gradatamente, anche il nemico diventa ignoto, perché non ci sono più campi di battaglia per i “corpo a corpo”, dove guardare negli occhi chi sta per colpirti a morte, ma ci sono trincee dalle quali partono proiettili e bombe anonime, senza un volto da maledire prima dell’ultimo respiro. E nuvole di gas che coprono ettari di terreno e radono al suolo interi battaglioni senza un lamento. E aerei che scaricano tonnellate di esplosivo dal cielo e navi che sparano cannonate a centinaia di metri di distanza. Uno sparare nel mucchio insomma, un conflitto spersonalizzato in cui gli esseri umani coinvolti sono semplici ingranaggi della macchina della storia, del meccanismo che li ingoia e li trasforma in cose. E proprio per questo – come sempre accade nel mio lavoro – sono andato controcorrente e ho rivolto la mia attenzione verso le piccole storie, verso gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione, perché questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia.